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Scrittori e suicidio

  • Writer: Raoul Precht
    Raoul Precht
  • Jan 4, 2024
  • 3 min read

Updated: Oct 15, 2024

È davvero impressionante la quantità di suicidi (o presunti tali, perché non sempre ne abbiamo l'assoluta certezza) fra gli scrittori del Novecento.


Eccone un breve elenco, sicuramente non esaustivo: comincia Carlo Michelstaedter nel 1910 a Gorizia, seguito da Georg Trakl nel 1914 (per overdose di cocaina durante la Grande Guerra), poi vengono due sommi poeti e scrittori ci culture tutt'affatto diverse e lontane come Sergej Aleksandrovič Esenin nel 1925, nell’albergo Angleterre di Leningrado, e Ryūnosuke Akutagawa, nel 1927.

Ritratto fotografico di Carlo Michelstaedter.
Ritratto di Carlo Michelstaedter.

Del 1930 è il suicidio di Vladimir Majakovskij a Mosca, nell'ormai famoso vicolo Lubianskij. Nel 1932 è la volta di Hart Crane, che si getta in mare di ritorno dal Messico, nel 1933 di Sara Teasdale. Nel 1939 Ernst Toller inaugura una lunga serie di suicidi fra gli intellettuali che cercano di scampare al nazismo.

A questa categoria, passando agli anni ’40, appartengono Walter Benjamin, morto nel 1940 a Port Bou, Walter Hasenclever ed Ernst Weiss, suicidi a Parigi nello stesso anno, uno ad Aix-en-Provence e uno a Parigi, come pure Stefan Zweig, che nel 1942 decide di farla finita, con la seconda moglie Lotte, durante il loro autoesilio a Petrópolis. Nel 1941 è la volta di Marina Cvetaeva nel suo esilio nella Repubblica tartara, nel 1945, in rue Saint Ferdinand a Parigi, di Pierre Drieu La Rochelle, nel 1948 di Osamu Dazai, che si getta, a Tokyo, nel fiume Tamagawa (anticipando Celan), nel 1949 di Klaus Mann, a Cannes.

Passiamo agli anni ’50: Cesare Pavese all’albergo Roma di Torino e John Gould Fletcher nel 1950, Tadeusz Borowski nel 1951, Norman Douglas (a Capri) nel 1952, Stig Dagerman a Stoccolma nel 1954, Aleksandr Aleksandrovič Fadeev nel 1956.

Anni ’60: Ernest Hemingway nel 1961, Sylvia Plath nel 1963, Randall Jarrell nel 1965, e Delmore Schwartz, al quale peraltro si ispira Saul Bellow nel Dono di Humboldt, nel 1966.

Gli anni ’70 sono una vera e propria ecatombe: nel 1970 Yukio Mishima nonché Arthur Adamov e Paul Celan, entrambi a Parigi, il secondo nella Senna, nel 1972 John Berryman, Yasunari Kawabata e Henri de Montherlant, quest’ultimo ancora a Parigi, nel 1973 William Inge, Guido Morselli a Varese, e Ingeborg Bachmann, nella sua vasca da bagno di via Giulia, a Roma (anche se qui si propende più per un incidente favorito da un eccesso di barbiturici). Nel 1974 è la volta di Anne Sexton, nel 1978 di Jean Amery a Salisburgo, nel 1979 di Lucio Mastronardi, naturalmente a Vigevano.

Negli anni ’80 abbiamo per primo Romain Gary in rue de Bac, a Parigi, nel 1980, Arthur Koestler a Londra nel 1983 e Primo Levi nella sua casa torinese nel 1987. Nel 1990 è la volta di Bruno Bettelheim, seguito nel 1991 da Jerzy Kosinski a New York, 57th Street, e nel 1996 da Amelia Rosselli, a Roma, in via del Corallo.

Alcuni di essi, va sottolineato, erano giovani o addirittura giovanissimi: 23 anni Michelstaedter, 27 Borowski, 30 Esenin, 31 Dagerman e Sylvia Plath. Altri hanno invece trovato la forza solo in tarda età: al momento di farla finita Bettelheim aveva 87 anni, Douglas 84, Koestler 78, Montherlant 76.

La domanda non è tanto perché o con quali modalità, la domanda vera è come interpretarle, tutte queste decisioni di darsi la morte, quale significato attribuire a un atto talmente individuale da non poter essere sottoposto ad alcuna generalizzazione. Eppure, si ha come l’impressione che un filo rosso ci sia, rosso perché insanguinato come lo è stato, malgrado loro, tutto il secolo.


 
 
 

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