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Writer's pictureRaoul Precht

La voce: l'impronta linguistica unica degli scrittori


Philip Roth
Philip Roth nel 1973.

Quello che cerco sempre di più in uno scrittore è una voce ben definita, che consenta al lettore (in primis a me come lettore) di riconoscerlo fra mille e di addormentarsi, come mi capita piuttosto spesso, appunto con questa voce che lo culla nel sonno, interferendo spesso e volentieri anche nei sogni. W. G. Sebald, per dirne uno e chiarire cosa intendo, disponeva senza dubbio di una voce propria, e così, sebbene sia uno scrittore di tutt’altro genere, David Foster Wallace (che pure, lo ammetto, da sveglio a volte mi annoia mortalmente). Oppure prendiamo il caso di Katherine Mansfield, altrettanto emblematico. Ma intendiamoci: non è detto che questa voce debba piacerci a tutti i costi, o rispondere esattamente alle nostre esigenze o, ancora, rivelarsi consolatoria; può anzi essere anche una voce stridente o sgradevole, ma è importante che ci sia, che si elevi al di sopra di tutto, anche dell’oggetto della propria narrazione. A modo suo, ne possiede una anche Andrea Camilleri, per dire, solo che in questo caso la deve all’abile pastiche linguistico più che a singolarità e vezzi sintattici. Ecco cosa mi succede: da qualche anno, quando leggo e sto per addormentarmi, e certe volte il libro mi crolla letteralmente fra le mani come un palazzo colpito da un terremoto, ecco che alcune voci, quelle più autentiche e personali, mi accompagnano e mi s’insinuano nei sogni, e ancora più spesso negli incubi. Sono allora incubi alla maniera di Sebald, o di Philip Roth, per citarne un altro, nei quali certi giri di frase continuano a ronzarmi in testa e, qualche volta, perfino a tradursi misteriosamente in azione.


Ancora a proposito di voce. Come sarà la mia? Il mio modo di scrivere non è certamente abituale per il lettore italiano medio, e a questo concorre la mia apertura, del tutto involontaria, alle interferenze linguistiche. Bene o male, sono nato e cresciuto in una condizione di bilinguismo, sia pure imperfetto (perché comunque più condizionato dall'italiano che dal tedesco); leggo abitualmente in varie lingue e non posso evitare di essere influenzato da stilemi e giri di frase mutuati da altre lingue o culture. Adorno si serviva della parola Geborgenheit per indicare lo stato di eccessivo agio all’interno della lingua, uno stato che finirebbe per mettere in pericolo l’espressività, e sosteneva che solo uno che non si sente pienamente di casa in una lingua può usarla davvero come strumento espressivo. Ecco allora che la mia voce potrebbe risultare proprio da questo scarto, come è già avvenuto in tanti altri casi.


Va detto per completezza che invece sulla sponda opposta si situa Cioran, il quale pure ha scritto in una lingua non sua, ovvero in francese, i suoi libri più importanti. Scrive infatti, quasi a dispetto della sua stessa esperienza (ma il paradosso in Cioran è sempre vivo): “Uno scrittore degno di questo nome sta confinato nella propria lingua materna e non va a intrufolarsi in questo o quell’altro idioma. È limitato e intende esserlo, per autodifesa. Niente rovina più sicuramente un talento di una troppo vasta apertura di spirito.” Avrei dovuto pensarci prima, ormai è troppo tardi. Se do davvero retta a Cioran, ahimé, non sarò mai degno di scrivere.




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