Quando si traduce, non si fa altro che creare un repertorio di possibilità, fra cui selezionare quella che ci sembra la più adeguata. È come se io mettessi insieme anzitutto un’immagine mentale a partire da quello che è stato espresso in lingua straniera, analizzassi le diverse possibilità di renderla in lingua italiana, e fra queste ne scegliessi poi una, la meno imbarazzante. È artigianato, sì, ma anche lavoro seriale: ho dei clusters che tendo a riprodurre e che rendono la mia traduzione personale. (Se participassi a un thinking-aloud-protocol, probabilmente questi automatismi emergerebbero.) È anche un continuo negoziato con l’autore dell’originale: non nel senso che io lo contatti necessariamente per averne l’approvazione – nel caso di autori defunti sarebbe un po’ complesso –, ma nel senso che sono io stesso a negoziare, avendola però compresa fino in fondo, al di là di quel che la povera lingua d’arrivo può rendere, con l’espressione che l’autore ha utilizzato e che cercherò di riprodurre con il massimo della fedeltà possibile.
Il mistero risiede insomma in quell’attimo, temporale e, direi quasi, metafisico, in cui nella mente del traduttore scocca la scintilla provocata dal testo di partenza, senza che si sia ancora pienamente formulata, nella sua mente prima ancora che sulla tastiera del computer o sulla pagina, l’equivalenza nella lingua d’arrivo. È in quel momento, forse, che ci giochiamo a dadi la cosiddetta fedeltà al testo. La scintilla si tradurrà in parole, che sono poi il risultato della traduzione, ma è l’immagine che essa crea prima delle parole a determinare la formulazione che sceglieremo, come pure le variabili che invece (più o meno saggiamente) scarteremo. Opteremo per la soluzione più vicina all’immagine che ci ha attraversato la mente; non solo, ma quanto più saremo rigorosi in questa scelta, nella rivendicazione della visione che si è scatenata in noi, tanto più riusciremo a rendere devotamente il pensiero dell’autore. Con una fedeltà assoluta, se non altro, nei confronti delle suggestioni che il testo ha suscitato in noi.
Qualche citazione sparsa:
Nel Settecento Matthias Claudius avverte: “Wer übersetzt, der untersetzt.” Aveva capito tutto. Come dirlo in modo più sintetico?
Quanto a Nikolaj Gogol', ebbene diceva (giustamente, dal suo punto di vista) che il traduttore dovrebbe essere un vetro così trasparente da rendersi invisibile.
Per Hans-Georg Gadamer, ogni traduzione è un’interpretazione, e ogni interpretazione un chiarimento enfatizzante. Di quest’enfasi bisogna assumersi la responsabilità. Ma alla fin fine il compito del traduttore è identico a quello del lettore.
Da un saggio sulla traduzione di Peter Newmark: “...come gli storici dell’arte scoprono che molti quadri sono stati falsamente attribuiti a grandi maestri, così noi scopriremo che molte interpretazioni errate della letteratura straniera, soprattutto russa, poggiano su traduzioni errate.” Non si sfugge alla necessità di sottoporre ogni traduzione a un’attenta revisione.
E ancora: “Il possibile di un’epoca è la somma dei suoi preconcetti.” Henri Meschonnic, parlando di poetica della traduzione. E aggiunge: “Ecco perché ogni epoca ritraduce." E, in effetti, la soluzione che oggi mi sembra brillante fra qualche anno si rivelerà obsoleta, non al passo con i tempi, o semplicemente sbagliata. Può succedere, è anzi frequente. L’assoluta necessità della revisione dopo al massimo un paio di decenni.
Ogni lingua, ormai, è una lingua da proteggere. La sua sopravvivenza diventa uno dei compiti del traduttore nel lavoro di tutti i giorni, senza proclami e difese d’ufficio. Ma sia chiaro, siamo agli antipodi del purismo e della difesa indiscriminata della lingua, in base a un modello fisso e dogmatico. La lingua va riscoperta giorno per giorno.
George Steiner avanza in Dopo Babele un’ipotesi curiosa: che fra i tanti equivoci inerenti alla storia della traduzione ve ne sia uno, assai sottile, relativo proprio alla famigerata torre. Forse quest’ultima non era il simbolo dell’universalità linguistica, come si è soliti ritenere, ma solo un tentativo di risposta dato dall’uomo all’esigenza di sfuggire alla molteplicità linguistica che gli rendeva impossibili la vita e la convivenza con gli altri. Tentativo che però gli avrebbe riservato una sorpresa. “Cercando di costruire le torri,” scrive Steiner, “le nazioni s’imbatterono nel grande segreto: che la vera comprensione è possibile soltanto quando vi sia il silenzio. Costruirono in silenzio, e in questo stava il pericolo per Dio.” La distruzione della torre diventa così distruzione non di una lingua universale, ma del silenzio, il linguaggio unico che Dio aveva scelto per sé. Vera o falsa che sia quest’ipotesi (e il punto non è questo, a me importa solo che sia suggestiva, e certamente lo è), siamo orami condannati al multilinguismo e dobbiamo farcene una ragione.
Nella prefazione alla traduzione in latino della Cronaca di Eusebio (Costantinopoli, 381-82 d. C.), San Gerolamo si preoccupa di far capire al lettore quanto il compito del traduttore sia scoraggiante, perché quello che leggiamo in traduzione è comunque un impoverimento rispetto all’originale. In pratica, riprende la lezione di Cicerone quando affermava la supremazia della resa del senso sulla resa delle singole parole.
Non sarà certo un caso se Ermes, oltre a essere il dio dei messaggeri, dei viaggiatori e dei briganti, è anche il dio dei traduttori.
Comments