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Writer's pictureRaoul Precht

Fare poesia

Oggi mi limito a segnalare qui un mio contributo sul "fare poesia", seguito da alcuni componimenti che fanno parte della plaquette A capo della congiura, il tempo. (Che è, la plaquette, del 2015, ormai: come passa il tempo!) Il contributo e le poesie sono apparsi sul blog "La poesia e lo spirito", e colgo anzitutto l'occasione per ringraziare Fabrizio Centofanti per la cortesissima ospitalità.

Copertina de "A capo della congiura, il tempo"

Riassumendo – ma chi è interessato all'argomento vada a leggersi il contributo integrale sul sito di Fabrizio – ho cercato di trovare qualche risposta, modesta e provvisoria, al senso e al significato, oggi, dell'essere poeti, o almeno del fare di tanto in tanto, come capita a me, anche della poesia, che diventa quindi parte integrante della mia espressione letteraria. (L'ultima proposta in questo senso è La bellezza al suo apparire, appena pubblicato da Arcipelago itaca dopo nove anni di "silenzio poetico", che non fa mai male.) Perché "essere poeti" è forse troppo, nel mondo e nel periodo storico in cui ci è toccato in sorte vivere, mentre "fare poesia" diventa un esercizio più praticabile. Farlo con tutta la serietà possibile, ma senza prendersi troppo sul serio (due concetti ben diversi fra loro, temo). E con qualche distinguo e qualche riserva, che trovate nel testo del blog già menzionato.


Copertina de "La bellezza al suo apparire"

Ci sono alcune regole che cerco di seguire e che posso qui rapidamente riepilogare:

  • non scrivere singole poesie, ma libri poetici, ovvero badare all’architettura di un supposto, intero volume di poesia, e promuovere, ove possibile, rimandi ed echi fra componimenti della stessa serie;

  • scegliere di scrivere in versi solo quando ciò sia congeniale a quanto intendo esprimere;

  • servirmi della poesia come veicolo di sensi ed esperienze da esprimere in modo altro rispetto alla comunicazione umana tradizionale, alle convenzioni della saussuriana langue, per dirla in un modo che piaccia ai linguisti;

  • fare della poesia un luogo di verità e di armonia confinate all’interno di quanto si è scritto, nella forma prescelta, che dovrà apparire al lettore necessaria e inevitabile;

  • ritagliarmi, ancor più che al momento di scrivere in prosa, uno spazio dominato da una disciplina ferrea, perché quando la poesia è il prodotto di arbitrio o mera follia non consente di avanzare e di crescere, ovvero ripiega su se stessa (e la follia, alla lunga, stanca);

  • evitare, per quanto possibile – e questa è la regola forse meno importante, ma più salutare – di frequentare il cosiddetto ambiente poetico, fatti salvi quei pochi amici poeti e scrittori che incrociano il nostro cammino e con la loro ci allietano quasi nostro malgrado l’esistenza…


Certo, non sono il primo a tentare di mettere insieme una lista di criteri, che idealmente dovrebbero permettere anche di separare il grano dal loglio, la buona poesia da quella cattiva, o semplicemente dalla non-poesia. Perché anche se ogni tanto si è tentati di definire la poesia in modo minimalistico, come quella cosa in cui basically si va a capo quando se ne ha voglia, le cose sono un po' più complicate.


Spero di non essere stato troppo pedante. Si fa presto, come ci ricordava il frivolo e profondo Arbasino, a passare da "giovane promessa" a "solito stronzo" e infine a "venerato maestro", e a volte tra la seconda e la terza fase non c'è soluzione di continuità. Magari si può anche tornare indietro, chi lo sa…


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