Ancora sulla traduzione, argomento inesauribile (almeno per me).
In un articolo su Yves Bonnefoy, Cesare Greppi parla incidentalmente di una strana categoria, quella dell’autore spaesato, ovvero l’autore posto di fronte alla sua opera tradotta, che non riesce più a riconoscere compiutamente. Il testo di Greppi mi è capitato fra le mani ormai molti anni fa, poco dopo l’uscita di un mio racconto su una rivista spagnola, e ho potuto quindi confrontare subito la sensazione di cui parlava Greppi con quella provata nel leggere un mio testo tradotto (peraltro magistralmente) in un’altra lingua, e per di più in una lingua tutto sommato prossima alla mia come lo spagnolo. Non c’è dubbio: il mio racconto è cambiato, secondo me ci ha perfino guadagnato (il traduttore come versione migliorata dell’autore, come autore più consapevole delle proprie scelte stilistiche? chissà...), ma soprattutto ho notato nuove suggestioni e possibili biforcazioni di senso che l’originale trascurava. Un’altra tessitura, insomma, meno (pre)definita, e sicuramente più aperta e libera, dove certi termini, lampanti per l’autore, diventano d’improvviso ambigui e polisemici, acquisendo e svelando nuovi sensi. (La traduzione, insomma, anche come opera più sensuale dell'originale...)
Per uno slittamento di sensi, tutto questo mi porta a un'altra considerazione. Non è forse vero che a volte occupiamo la nostra lingua manu militari, pensando di poterci permettere qualunque incursione, mentre la lingua straniera ci induce a maggiori cautele e magari ci intimidisce? E non sarebbe opportuno applicare questa timidezza anche e soprattutto alla madrelingua? Viverla da ospiti, da esiliati, da eterni profughi, che è poi quello che sempre siamo? Ci vuole umiltà, insomma, nello scrivere come nel tradurre. Ma l’aderenza, il rispetto, la ricerca della verità espressiva a volte non bastano. Nella traduzione letteraria, e segnatamente in quella poetica, è necessaria anche la fantasia, e può esserlo persino la forzatura, se ci aiuta a fruire dell’originale e ad appropriarcene.
“La poésie est moins un texte qu’une matière qui irradie sa lumière. Et c’est une matière de même sorte que le traducteur doit livrer à l’attente de son pays et de son époque.” Chissà che queste parole di Bonnefoy non vadano estese alla traduzione tout court, e se non proprio a quella dei manuali d’istruzione per le lavatrici, almeno a quella letteraria, in tutte le sue sfaccettature. E che la luce irradiata di cui parla Bonnefoy non possa abbattersi sulle diverse traduzioni come attraverso un prisma, consentendo d’illuminare aspetti che altrimenti resterebbero reconditi… Magari è proprio questa la scommessa della traduzione, o il mistero del tradurre.
Ma insisto: la traduzione deve servire anche a ricordarci che dobbiamo sempre abitare la nostra lingua come se fossimo in esilio, senza dare nulla per scontato.
Tornando a quel mio racconto, sarà pure che si svolgeva a Madrid, e si prestava quindi particolarmente a essere tradotto in castigliano, ma alla fine mi è sembrato davvero molto più adatto al castigliano che non alla lingua in cui l’ho scritto. Eppure, si trattava di una versione “bella e fedele”, non di una rielaborazione. È solo la bravura del traduttore, o sono io ad aver fallito su tutta la linea? A essere nato, per esempio, nel paese sbagliato? (E magari non solo per questo...). Comunque, e consentitemi la boutade, se ogni traduzione interpreta, allora ogni interpretazione, per prima cosa, traduce.
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