Alla morte dei due dioscuri della letteratura svizzera del secondo dopoguerra, Friedrich Dürrenmatt e Max Frisch, avvenuta a breve distanza (rispettivamente nel 1990 e nel 1991), qualcuno ha sostenuto che detta letteratura – almeno quella di espressione tedesca – fosse da considerarsi morta e sepolta. A smentire la fosca profezia ci hanno pensato diversi scrittori della generazione successiva (mi limiterò a menzionare Bichsel, Muschg, Kracht e Suter, ma di nomi se ne potrebbero fare una decina). E punterò invece il riflettore su un quinto nome, quello di uno scrittore anch'egli scomparso, nel frattempo – ne ricorre il decennale della morte –, ma che ebbe con una manciata di libri un successo tale da riportare in auge la letteratura svizzera e orientarla su strade nuove. Cosa, questa, che gli viene riconosciuta da tutti anche al di là del giudizio critico sulle singole opere.
Parlo di Urs Widmer, nato a Basilea il 21 maggio 1938 e morto a Zurigo, dove aveva abitato negli ultimi trent'anni di vita, il 2 aprile 2014, divenuto celebre in campo teatrale con la pièce Top Dogs, del 1996 (in italiano Top Dogs: manager alla deriva, pubblicata da Mimesis), un'aspra satira del mondo dei manager e delle carriere facili, in cui metteva alla berlina l'avidità e i falsi valori di una società che logora e divora i propri figli, dirigenti compresi.
In ambito narrativo, dopo una prima serie di racconti e romanzi a metà fra avventuroso e grottesco (parte dei racconti sono stati editi in italiano dall'editore svizzero Casagrande), a imporsi – sui circa trenta volumi che ci lascerà – saranno soprattutto cinque libri: Der blaue Syphon, del 1992 (Il sifone blu, uscito da noi presso Keller), Liebesbrief für Mary, del 1993 (mai tradotto in italiano), Der Geliebte der Mutter, del 2000 (L'uomo amato da mia madre, Bompiani, poi ripubblicato da Keller con il titolo Il grande amore di mia madre), Das Buch des Vaters, del 2004 (Il libro di mio padre, Keller), e infine l'autobiografia romanzata Reise an den Rand des Universums, del 2013 (anche di quest'ultimo manca la traduzione in italiano).
La misura prediletta da Widmer è quella breve, a metà fra racconto e romanzo: si potrà parlare, a seconda della prospettiva assunta, di racconto lungo o romanzo breve, ma tra le due modalità Widmer non sembra fare troppa differenza. L'urgenza del narrare è in qualche misura temperata dall'esigenza di non annoiare, di non riempire di dettagli una storia che ambisce a essere raccontata nella sua semplicità , con una linearità essenziale che però non disdegna qualche frattura o l'accorto impiego di variazioni. Anche quando lascia il campo aperto a elementi visionari, onirici e fantastici, insomma, Widmer mostra di saperli dosare e centellinare con una certa maestria, tenendo sempre salde in mano le redini del racconto.
Così, Il sifone blu, per esempio, volumetto di cento pagine scarse, parte da una premessa che ha fin da subito dell'incredibile: il narratore cinquantenne, uscito dal cinema dove ha visto un film molto singolare, si ritrova trasportato nella sua infanzia, mentre il bambino di tre anni che era all'epoca approda al nostro presente, con uno scambio di ruoli non solo originale, ma foriero di situazioni ai limiti dell'inimmaginabile. Quando il cinquantenne si ritrova catapultato nella casa paterna, infatti, il bambino è appena scomparso, guarda caso dopo essere stato portato al cinema, e la polizia lo sta attivamente cercando. Siamo in piena guerra, al confine militarizzato e impenetrabile fra Svizzera e Germania. Al contempo, il bambino disperso si ritrova davanti all'abitazione del protagonista a Zurigo, una casa in cui vivrà solo cinquant'anni dopo, dove incontra la moglie, che già a tre anni aveva promesso di sposare, la figlia e il proprio cane. Si tratta di una specie di favola per adulti, condotta con gusto e divertimento, leggerezza e qualche accenno a uno scandaglio più profondo nell'animo umano, quando per esempio l'autore evoca il motivo della guerra, vissuta con l'innocenza e la disperazione del bambino – Widmer essendo nato, come dicevamo, nel 1938.
Con Liebesbrief für Mary, libro altrettanto smilzo la cui parte centrale – una lettera d'amore, appunto – è scritta in un improbabile inglese (l'inglese, cioè, che scriverebbe un tedesco alle prime armi), producendo già solo per questo un irresistibile effetto comico, siamo invece nel pieno di un classico triangolo amoroso, che diventa a dire il vero un quadrilatero quando la bellissima Mary, dopo aver avuto una relazione tanto con il protagonista quanto con il suo migliore amico, decide di lasciarli entrambi e di trasferirsi in Australia al seguito di un più interessante aborigeno. Laconico e brillante, in meno di cento pagine Widmer racconta la tragicomica storia con slancio e partecipazione emotiva, sottraendosi però con eleganza, malgrado il tema scelto, al rischio del déjà vu.
Il suo capolavoro è con tutta probabilità L'uomo amato da mia madre, altro breve romanzo in cui dà conto di un'esistenza, quella della madre Clara, appunto, votata al sacrificio e all'insignificanza, all'ombra di un uomo – un famoso direttore d'orchestra nel quale, per gli habitués dell'ambiente culturale svizzero, è stato fin troppo facile riconoscere Paul Sacher – che l'avrebbe utilizzata e abbandonata, ignorandone la profonda passione. Coinvolta, sia pure in un ruolo ancillare, da Edwin, un giovane direttore, nella creazione di una nuova orchestra, Clara vi si dedica con passione e dedizione totali. Lei proviene da una famiglia ricca, ancorché di basso livello culturale, mentre lui è povero; ma soprattutto lei è un'appassionata di musica che in lui, compositore e pianista dalle doti assai modeste, riscontra un talento più unico che raro per la direzione d'orchestra. I fatti le daranno ragione: per qualche tempo i due collaborano in perfetto accordo, riescono a formare l'orchestra e a mietere i primi successi. Poi avranno però anche una brevissima storia in un albergo a ore, che cambierà il corso delle cose e si concluderà nel peggiore dei modi, con un aborto esplicitamente richiesto da Edwin, il quale a conti fatti non ha nessuna intenzione di condividere la sua vita con Clara. Sposerà infatti ben presto una ricca ereditiera, ottenendo non solo i fondi necessari alla sua orchestra, ma diventando altresì uno degli uomini più ricchi del paese, a capo di diverse aziende e stabilimenti, fra cui anche un'industria di armamenti molto attiva in tempo di guerra. Anche per Clara le cose cambieranno, ma in peggio: con la crisi del 1929 perde tutta la fortuna familiare, si sposa senza amore, solo per non restare sola, ha un figlio che le resta estraneo, finisce avvolta sempre di più nelle spire della depressione e infine, a più di ottant'anni, si getta dalla finestra dell'ospizio schiantandosi su una vecchia 127 appartenente al custode e mettendo così fine ai suoi giorni. Per il figlio, che ne racconta ora la storia e che fin dall'età di tre anni l'ha vista entrare e uscire dagli istituti psichiatrici, sarà stata in definitiva una madre la cui perdita era iscritta fin dall'inizio nel destino personale e familiare.
Non è un caso che il libro di Widmer sia stato messo in relazione con un altro capolavoro, quel Wunschloses Unglück (Infelicità senza desideri) che contribuì a far conoscere, all'inizio degli anni Settanta, Peter Handke. Anche in quel caso il personaggio principale è una madre malinconica e irrisolta, e il tema che si sprigiona dal libro è il rapporto contorto, fra amore viscerale e delusione, fra prossimità e distanziamento, che lega madre e figlio.
In qualche modo parallelo, anche se di diversa qualità , il romanzo dedicato al padre. Walter Widmer era stato un apprezzato francesista – fra gli autori da lui tradotti figurano Rabelais, Diderot e Aymé –, estensore di libri di testo per l'insegnamento del francese, critico letterario, per un certo tempo militante comunista, amico fra gli altri di Heinrich Böll e intellettuale di un certo spicco. Una di quelle figure paterne, insomma, che rischiano di diventare particolarmente ingombranti per un figlio che cerchi la propria strada: tanto che sarà solo alla morte del padre, nel 1965, che Widmer si consacrerà definitivamente alla scrittura.
Rispetto al libro precedente, qui Widmer si prende un numero maggiore di pagine per descrivere un'esistenza metodica e regolare, nella quale in fondo sono pochi gli episodi davvero atti a suscitare curiosità nel lettore. Il grigiore apparente è riscattato con la solita verve e una prosa a tratti ludica, che non risulta però sempre convincente. Nel loro insieme i due romanzi sono stati paragonati a una chiusura lampo letteraria, in cui le due storie si intersecano irresistibilmente, anche se i protagonisti di ciascuno dei due libri figurano pressoché assenti nell'altro – come figure-fantasma, destinate alla scomparsa dalla scarsa rilevanza che hanno per la vita del coniuge.
Di Widmer resterebbe ancora da ricordare almeno Reise am Ende des Universums, che si apre con una constatazione ironico-malinconica: "Nessuno scrittore a cui non abbia dato di volta il cervello scrive un'autobiografia. Perché l'autobiografia è l'ultimo libro. Dietro l'autobiografia non c'è più nulla. Tutto il materiale è utilizzato. Non ci sono più enigmi nei ricordi." Edito al compimento dei 75 anni come una specie di resa dei conti con se stesso, in effetti sarà l'ultimo lavoro pubblicato, nel quale l'angoscia è meno mascherata del solito dai guizzi di fantasia e dalla brillantezza linguistica sempre riconosciutegli nelle motivazioni dei premi ricevuti, dal Premio Hölderlin nel 2007 al Premio svizzero della letteratura nel 2014. Il libro tratta soprattutto dei primi trent'anni di vita, combinando il gioco della memoria con il rimpianto; qui Widmer sembra assistere con divertita sorpresa alla trasformazione di quello che è stato vissuto come presente e futuro in un passato ormai immodificabile. Neanche in questo caso può peraltro rinunciare a qualche bizzaria delle sue, come la descrizione della propria nascita, di cui la memoria non serba evidentemente traccia; ma questi scarti dal realismo sono giustificati sia dalla volontà di completezza, sia dall'esigenza di mostrare al lettore il mondo proprio come lo aveva visto con i suoi occhi di bambino, e persino di neonato. Un altro scarto è dato dal fatto di non seguire rigorosamente un ordine cronologico, ma di procedere per temi, privilegiando descrizioni e caratterizzazioni puntuali di un'epoca che non ritorna.
Come disse in occasione del conferimento del Premio Bachmann nel 2011, Widmer non puntava a scrivere "bene"; era anzi convinto che uno scrittore fosse perduto nel momento stesso in cui avesse cominciato a tendere verso la "bella" scrittura, e che a caratterizzarlo fossero semmai le deviazioni dalla norma. Per lui, la differenza fra buona e cattiva letteratura stava (kafkianamente) nel fatto che la buona letteratura è percorsa da un malore sotterraneo (che può anche essere sublimato, ma sussiste sempre), mentre la cattiva letteratura, lungi dall'essere dolorosa o perturbante in sé, è invece strutturata in base a frasi già sentite, a blocchi di parole che non ci scuotono più perché rientrano fra gli elementi abituali della vita e risultano pertanto consolatori. La cattiva letteratura rende insomma omaggio a un comune denominatore linguistico che siamo tutti costretti a rispettare, ma di cui, al momento di scrivere, dovremmo liberarci. E ricordava il caso di un classico come Goethe al quale, benché già ai suoi tempi fosse famoso, venivano preferiti personaggi di minor rilievo come Kotzebue o Hermes perché più bravi a servirsi delle norme linguistiche acquisite e predigerite nella loro epoca.
Chiudo ricordando una massima di Dorothy Parker che a mio parere può essere applicata a quasi tutti gli scrittori: «Odio scrivere, ma amo aver scritto», massima che per qualche strana ragione mi pare adattarsi in particolare proprio a Widmer. Leggendolo, e pur apprezzandone la concisione, si ha l'impressione che questa sia dovuta tanto alla vivacità dell'intelligenza, che gli impedisce di indugiare, quanto a una certa indolenza. Si vorrebbe a volte qualcosa di più, una descrizione più particolareggiata, un approfondimento, magari anche qualche ripetizione o un momento di stasi che consenta di archiviare nella mente quanto si è appena letto – e invece se solo volti pagina ti accorgi che Widmer è già altrove, lontano, ha altre cose da dirti e ti fa cenno, impaziente, di seguirlo…
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